Svenja Deininger | Quotes
Con un testo di Davide Ferri
Vernissage:
21 June – 14 October 2022
18:00 – 21:00
22 June – 14 October 2022
12:00 – 19:00
Press Release

Ho conosciuto per la prima volta Svenja Deininger di persona alcuni giorni fa. Mentre prendevamo un caffè nel cortile del suo studio le chiacchiere di una coppia di vicini facevano da sottofondo alle nostre. Non so spiegare bene perché, ma questa interferenza, il quotidiano che inevitabilmente fa capolino nei discorsi sulla pittura, che provano sempre a svilupparsi secondo linee ordinate, secondo un andamento geometrico, mi è sembrato un buon preambolo alla visione dei suoi lavori. Durante la conversazione ho ricapitolato i momenti salienti del mio incontro con il suo lavoro. La prima mostra da Federica Schiavo (2015), dove l’immagine prevalente (nel mio ricordo) sono i quadri con cornici dai perimetri irregolari. In quei lavori la cornice è una specie di nervatura da cui si emana la forma del dipinto e al contempo, in quanto cornice, è un atto conclusivo, contorno che la definisce e la fissa. La mostra alla Collezione Maramotti, dove alcune opere dell’artista polacco Władysław Strzemiński, protagonista di un modernismo che cercava nuove possibilità di rapporto tra astrazione e realtà, in forma di irradiazione e propagazione, facevano da contrappunto ai nuovi lavori dell’artista, uno dei quali, come una sorta di fulcro energetico che traccia un filo sottile tra le due mostre, è esposto in Quotes da Schiavo Zoppelli, la personale per cui sono chiamato a scrivere.

 

Ho cercato di evitare, durante la mia conversazione con Svenja, di usare le parole astrazione e figurazione. È un terreno vischioso in assoluto quello delimitato da queste due categorie novecentesche dal suono obsoleto, ed è una faccenda delicata se penso al lavoro di Deininger. Voglio dire: il suo lavoro è integralmente astratto? (Direi di no). E da cosa deriva invece la sensazione di un alito di realtà (cioè di cose riconducibili al reale) che soffia in molti suoi dipinti? Così se alcune opere del passato mi sembrano segnate da una spinta verso il ritratto e la figura, in Quotes ce n’è una (Untitled, 2022) che, con un semitondo nella parte superiore (colorato di nero) e forme che possono richiamare profili di edifici, mi sembra inseguire l’immagine del paesaggio in molti punti, ma in forma labile e intermittente. E non sono profili di cose – dettagli di architetture come lesene, cornicioni o corrimano – quelli che le linee e i profili di molti suoi dipinti richiamano? E ancora: sono proprio queste vaghe allusioni alla realtà le citazioni a cui il titolo rimanda?

I lavori di Deininger mi sembrano dunque attraversati da due forze contrapposte: da una parte vi è una spinta verso una composizione che si sviluppa secondo le logiche di una sintassi astratta, della grammatica combinatoria o del collage; dall’altra una forza che agisce sull’osservatore per invitarlo, pur temporaneamente, a far coincidere ogni immagine con diverse immagini di paesaggi, cose e figure.

 

C’è poi un altro aspetto che connota il lavoro di Deininger: la dimensione “oggettuale” di ogni suo dipinto, l’idea cioè che ogni suo dipinto sia un dispositivo che coinvolge tutta l’articolazione materiale che lo costituisce: la superficie e il rovescio della tela, un supporto spesso, talvolta risultato di una sovrapposizione di diverse tele (affinché i toni quelle di sottostanti contaminino quelli di superficie), il bordo (anch’esso, talvolta, dipinto), il telaio (sagomato in una serie di lavori che si sviluppa da alcuni anni). Inoltre i diversi toni di rosa di molte campiture (ricorrenti nella tavolozza dell’artista) possono funzionare come un richiamo alla pelle (so che Svenja sarebbe solo parzialmente d’accordo) che amplifica l’impressione di “superficie sensibile” di molti suoi dipinti.

In studio ho guardato a lungo i quadri con telai sagomati, mentre stabilivo diverse traiettorie di visione attorno ai due muri a cui erano appoggiati. In Quotes questi sei lavori occupano pareti contigue e la loro prossemica, più che configurarli come una serie compatta, costituisce una partitura lungo la quale risuonano apparenti somiglianze e ricorrenze, inversioni e contrasti.

Questi lavori hanno dunque superfici articolate, risultato di una combinazione di forme prodotte dalle curvature e modellazioni del telaio e dalle campiture di colori che possono ripetere quelle forme o disarticolarle, variandole; sono ripartiti in aree dai perimetri rimarcati da una linea che può inspessirsi, assottigliarsi, o affondare nel supporto come fendendolo o tagliandolo (i contorni di queste aree possono richiamare, pur vagamente, dettagli di realtà); coinvolgono una gamma ristretta di toni, capaci di rilanciarsi reciprocamente all’interno dei singoli dipinti e tra diversi dipinti della sequenza. Inoltre in ognuno di essi il colore ha la stessa capacità costruttiva del telaio, un colore può essere steso anche sul rovescio della tela (a determinare la qualità dei toni di superficie) e lungo i bordi, invitando l’osservatore a muoversi verso i lati. Infine, proprio per via di questi richiami e rilanci energetici, di un senso di irrisolutezza e sospensione che appartiene a ognuno dei lavori, i dipinti con telai sagomati attivano il muro e il bianco tra loro come partitura in negativo, ma con un ruolo attivo nella trama di rapporti che si stabilisce all’interno della sequenza.

 

Così come le pareti, anche lo spazio, tutto lo spazio della galleria, in Quotes, si attiva e riconfigura attorno a quello che mi sembra essere un vero baricentro energetico della mostra, un lavoro (Untitled, 2022), che deriva dall’accostamento di tre tele di formato decisamente verticale, appese senza telaio al soffitto fino a sfiorare il pavimento. Le tre tele sono dipinte su entrambi i lati con un motivo a bande verticali. E accostate, pur con un ritmo sfalsato, a formare una specie di trittico, che si discosta dal muro quel che basta da permettere all’osservatore di compiere un giro attorno ai dipinti di 360°, per vederne entrambi i lati.

Detto tra parentesi: guardando questo lavoro, non c’è dubbio, ho pensato alla vitalità bifacciale di certi polittici o altari rinascimentali (opere che si collocano lontane dal muro e all’interno dello spazio), dove il rovescio, dipinto o decorato, prepara alla visione della fronte principale; ma qui non ci sono una fronte principale e un rovescio, solo due lati che hanno la stessa incisività. Ho pensato anche a Rothko (il Rothko dei trittici), più che a Buren (il Buren dell’intervento al Guggenheim del ’71), per una particolare vitalità interna ai lavori che ha a che fare col respiro: le tre tele di Deininger sono certamente soggette alla possibilità di lievi spostamenti fisici provocati dalle sollecitazioni dell’aria e dei movimenti dei corpi attorno a loro, ma anche a un costante avanzamento e arretramento nello spazio che deriva dall’accostamento dei toni e dalle gradazioni di colori sulle superfici. E ho pensato a Rothko per il modo in cui le tre tele si saldano tra loro per permettere allo spettatore, quando il suo corpo è vicino, di delimitare il campo della visione escludendo temporaneamente il muro e lo spazio circostante.

Le tre tele verticali mi appaiono anche come “dipinti-tavolozza” (in essi cioè sembrano confluire tutti i toni dei lavori inclusi in Quotes) e anche per questo funzionano da raccordo, attivando il ritmo della visione di tutta la mostra, attraverso gli innumerevoli punti di vista che si creano attorno a loro, a cui corrisponde una temporalità della visione mobile e vibratile.

Dicevo del respiro. Che nel caso di Deininger associo una particolare forma di movimento – discreto, appena percettibile, perpetuamente introflesso ed estroflesso – interno a ogni suo lavoro, come nel dipinto “quasi monocromo”, sui toni del giallo, che vibra per via di una irrisolutezza di forme che non si concludono e si compenetrano nei diversi gialli della superficie (un colore che si fa ora più opaco, quasi sporco, ora più luminoso). In molti lavori in mostra, inoltre, la prossemica tra campiture più ottuse, assertive, derivanti da una stratificazione più decisa, e campiture che hanno l’aria di essere “non-finite” (in cui il colore è uno strato sottile che evidenzia la trama della tela su cui si deposita), genera un movimento che ha l’incedere di un soffio, di delicati avanzamenti e arretramenti, aprendo i dipinti allo spazio e al contempo richiudendoli nella propria materialità.

 

 

Davide Ferri

 

 

 

Press Release
Schiavo Zoppelli Gallery
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Via Martiri Oscuri, 22, 20125, Milano
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